Storia di Natale



Mario non si esprime correttamente e in classe ridono. Far ridere sembra il suo destino fin quando scopre che sa anche far piangere. Mario è l’ennesima testimonianza di come la com-prensione possa salvare una vita. 

Un bel viso rotondo che ti vien proprio voglia di strapazzare, un sorriso radioso che ti offre con facilità: è Mario il giullare della III A. I suoi compagni e le maestre lo chiamano “il pagliaccio”, lui sembra gradire l’appellativo, in realtà se da un lato essere un clown è un modo come un altro per essere riconosciuto, dall’altro risulta un ruolo troppo difficile da sostenere per un bambino di nove anni bisognoso d’affetto e di comprensione. Il pagliaccio fa divertire tutti e si illude così di essere amato da tutti, però spesso viene a scoprire che gli altri lo cercano solo per ridere dei suoi errori e della sua goffaggine. L’ultima volta che ho visto Mario era felice e mi ha regalato un disegno: “Così non ti dimenticherai di me” mi ha detto con aria decisa; la paura di essere lasciato è un ombra pesante che gli fa vivere ogni separazione, anche la meno difficile, con un certo grado di inquietudine. Del resto suo papà gliel’ha combinata proprio grossa quel giorno che si è fatto scoprire nel lettone con una donna che non era certo la sua mamma, la signorina in questione, urlando per l’inaspettato incontro, si è dissolta come una visione, ma Mario non l’ha mai dimenticata e si è portato nel cuore questo segreto per molto tempo. Quel briccone di papà pensa bene di continuare la sua avventura tra le quattro mura domestiche, finché un giorno la mamma lo scopre con le mani nel sacco e rompe ogni possibilità di dialogo. La mamma di Mario ha sangue caliente nelle vene e non tarda a dimostrarlo: il fedifrago  fugge in modo rocambolesco con i suoi vestiti, le sue scarpe e altri oggetti di vario genere che volavano dal balcone. Certo la donna non ha tutti i torti, ma Mario perde l’orientamento: quello è il suo papà e non può perderlo così. Mario ha molta difficoltà nello scrivere, sembra affetto da una forma di dislessia abbastanza seria, ma da quando la famiglia si è disgregata i suoi problemi hanno raggiunto anche il linguaggio parlato ed è così che il suo ruolo di pagliaccio della III A si consolida diventando un abito troppo pesante e difficile da sfilare. Ivana, la maestra di sostegno, lo aiuta molto, ma in classe trova scarsa accoglienza e il copione del pagliaccio diventa sempre più tragico: nessuna delle parole che escono dalla sua bocca viene presa sul serio né dai compagni né dalle maestre. Le risate aumentano e il suo rendimento scolastico diminuisce. A casa la vita è triste, la sera a tavola il papà non c’è più e il momento della cena diventa qualcosa da far passare il più velocemente possibile: la mamma guarda la televisione, Patty, la sorella maggiore, mangia mentre sfoglia una rivista per teenager e Mario spera che il telefono squilli. Una sera il suo desiderio si esaudisce, ma non riesce nemmeno ad alzarsi per rispondere che già la mamma sta scaricando, come un tornado, tutta la sua rabbia sul fedifrago: “Lurido verme schifoso dimentica questo indirizzo” dice con voce stridula e chiude la telefonata senza indugi. Mario cerca con gli occhi lo sguardo di sua mamma implorando una resa, ma la donna è troppo ferita per leggere il dolore che segna gli occhi di suo figlio. A scuola la situazione peggiora, Mario si esprime in modo sempre più sgrammaticato, la scrittura diventa una accozzaglia di lettere senza senso, ma le maestre di classe non hanno tempo da dedicare al suo disagio e, nonostante sia in terza, segue un programma di fine I elementare. Tutto ciò è molto frustrante per il bambino che non riesce a trovare alcuna gratificazione all’interno della scuola. Ciò che più gli fa male è sentirsi sempre più estromesso dal gruppo dei compagni perché è considerato un impedimento per il proseguimento del programma. Mario non ha più voglia di far ridere, è giunto il momento di abbandonare il ruolo del pagliaccio per indossare la maschera del cattivo. L’unico modo per sopportare il dolore è infliggerlo ai compagni: pugni, calci, spintoni sostituiscono sorrisi e abbracci. Una mattina non ce la fa più e lancia d’improvviso un destro in pieno volto a Luca, quella risata di troppo oggi non è in vena di sopportarla. Questo gesto violento fa passare a tutti la voglia di ridere in pochi secondi, mentre la luce definitivamente si spegne negli occhi di Mario. L’hanno obbligato a diventare cattivo, Ivana però sa che questa è solo una reazione di autodifesa e cerca di preservarlo da ulteriori situazioni inadeguate standogli il più vicino possibile. I compagni rimangono ammutoliti e le maestre cercano di escluderlo ancor di più: non sanno e non vogliono affrontarlo. Per un certo periodo Ivana lo tiene molto più tempo con sé nell’aula di sostegno. Lì, lontano dalle risate di scherno, in uno spazio più accogliente, racconta tutte le sue vicissitudini famigliari e trova quella comprensione necessaria per non far precipitare il suo comportamento in pericolose condotte antisociali. Spezza il cuore ascoltare i racconti di un bambino preoccupato per le sorti della propria famiglia e che tra le lacrime dice di faticare ad addormentarsi la sera perché pensa a dove potrebbe trovarsi il suo papà. Ivana lo incoraggia e lo aiuta a prepararsi per le interrogazioni in classe cercando di far comprendere alle colleghe che gratificare gli sforzi di questo bambino è la mossa vincente per inserirlo nella classe; i suoi compagni potrebbero così dimenticare il pagliaccio e accogliere semplicemente Mario. Davanti a tutti  Mario continua però a litigare con le sillabe, quella storia dei Romani che conosce ormai con una certa sicurezza non si lascia raccontare perché le parole continuano ad uscire storpiate, mentre l’insegnante di italiano mostra una certa impazienza. Un ennesimo fallimento si aggiunge al suo difficile tentativo di far parte a pieno titolo della III A. Quando è solo con Ivana tratta invece le parole come delle vere amiche. “Ma queste tue amiche quando le farai conoscere a tutti?” chiede Ivana durante un momento di tranquillità. Questa si rivela la giusta chiave d’accesso: se ami qualcosa diventa una parte di te importante che non puoi più detestare, se ami le parole che pronunci diventano un veicolo di grande valore per raggiungere gli altri. Mario si impegna molto nel suo nuovo progetto e quando è con Ivana si accorge che le parole sono delle amiche inseparabili. Mentre in classe quelle stesse parole continuano ad essere motivo di disagio perché le maestre persistono nel loro atteggiamento insensibile, considerando questo bambino come un disturbatore da inibire. Pian piano la mamma di Mario supera il dolore e il rancore per l’affronto subito e si rende conto che non può negare al figlio il permesso di vedere il papà almeno per qualche ora al giorno. Inizia così il lento e faticoso cammino verso una situazione familiare meno conflittuale; il papà non torna più a casa ma è di nuovo presente nella sua vita. E’ bello vederli camminare insieme per mano: Mario è tornato sorridente come un tempo perché nulla lo rende felice come questo ritorno alla quasi normalità.      

Una nuova scuola, due nuove maestre e un luogo più accogliente per crescere hanno permesso di fare una scoperta sensazionale: Mario non è dislessico. Quella straordinaria intuizione di Ivana ha favorito il recupero linguistico del bambino che si è sempre espresso malamente a causa dell’ambiente culturale poco stimolante in cui è vissuto, ma soprattutto per aver convogliato l’ansia, la paura e il dolore sulle parole. Le parole sono tornate le sue amiche inseparabili quando hanno abbandonato il ruolo di rispecchiare il dolore, l’ansia e la paura che la sua famiglia, e la scuola, gli avevano trasmesso. Mario inizia ad esprimersi meglio, certo ci vorrà del tempo per acquisire una forma più sciolta nella conversazione e una maggiore abilità nello scrivere, ma con il papà nuovamente vicino, degli insegnanti più sensibili e competenti troverà un posto adeguato in mezzo agli altri. Ora ha quasi dodici anni, il pagliaccio non esiste più nella sua vita, ma il suo ricordo ha lasciato una grossa cicatrice che solo l’amore potrà rimarginare. 

Maria Giovanna Farina (Lecco 2000, dicembre 2002)



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