Intervista a Fiorenza Toccafondi, docente di Storia della Filosofia all’Università di Parma. 



Vista la sua profonda conoscenza anche in ambito fenomenologico, le ho posto domande specifiche su un tema caro a questa rivista.

 

Quali sono, Fiorenza, i punti di incontro tra fenomenologia, filosofia e scienza, passati e presenti?

I punti di incontro passati fanno parte dell’origine stessa della fenomenologia, che nasce primariamente come indagine dei fenomeni sensibili e delle loro forme di datità. Lo stesso Husserl, nelle conferenze di Amsterdam (1925), individua la nascita della fenomenologia nella «radicalizzazione di un metodo fenomenologico sviluppato e praticato da tempo già da alcuni ricercatori nelle scienze naturali e in psicologia», facendo al riguardo tre nomi: Ernst Mach, Ewald Hering e Franz Brentano. E del resto, gli stessi esordi fenomenologici di Husserl sorgono da questo retroterra. Nella Filosofia dell’aritmetica (1891) è infatti sul modello della«psicologia descrittiva» di Brentano e di Carl Stumpf che egli muove la propria indagine volta a individuare gli atti, le operazioni psichiche correlate ai concetti di aggregato, tutto, parte, unità, molteplicità, numero. Solo dopo la pubblicazione della Filosofia come scienza rigorosa (1911) egli tenne a prendere radicalmente le distanze da questa accezione di fenomenologia, che definì «fuorviante» proprio perché troppo compromessa col versante empirico.

Stumpf, uno dei maestri di Husserl, immaginava invece la riflessione fenomenologica come un terreno di studio comune per il fisico, il fisiologo e lo psicologo, dunque come un terreno di indagine in cui convergevano scienze empiriche e filosofia. Riguardo al rapporto tra fenomenologia e fisiologica è interessante qui ricordare che Stumpf riteneva che è «il versante della fenomenologia che ha qualcosa da offrire, e la fisiologia la parte che ci guadagna». Si tratta di una indicazione di metodo estremamente attuale, attualità che si può cogliere pensando ai molteplici appelli odierni volti a naturalizzare la fenomenologia o addirittura a «fenomenologizzare le neuroscienze cognitive» (è questo il caso di Vittorio Gallese), a investire sulla fertilità di un approccio «neuro-fenomenologico» (è questo il caso di J. Petitot, F. J. Varela, B. Pacoud e J. M. Roy), a «incorporare le intuizioni fenomenologiche nella progettazione dell’esperimento»  (è questo il caso di Shaun Gallagher  e Dan Zahavi). I punti di incontro attuali stanno proprio nei ricorrenti inviti – avanzati in modo sempre più insistente dallo stesso mondo scientifico ­– a operare un raccordo tra riflessione fenomenologica e indagine scientifica (in primo luogo neuro-fisiologica). Si tratta di inviti che, sicuramente, fanno seguito all’insoddisfazione maturata per l’impianto neurofisiologico «classico» (che della fenomenologia teneva ben poco conto) e per quello neuro-computazionale, entro il quale il rapporto tra il cosiddetto livello algoritmico, il livello implementativo e il livello fenomenologico è rimasto sostanzialmente un nodo irrisolto. 

Quali sono i contributi dell’Osservazione in ambito scientifico e in quello fenomenologico?

L’osservazione è fondamentale in entrambe gli ambiti. Che l’esperienza e l’osservazione rappresentino il banco di prova per le teorie scientifiche è però un truismo. Si tratta infatti di capire di che tipo di esperienza la scienza debba avvalersi per l’indagine dell’esperienza umana, dei suo contenuti percettivi, dei suoi vissuti. A questo riguardo, per rendersi conto dell’importanza di un raccordo tra indagine scientifica e descrizione fenomenologica, basta pensare alla memorabile controversia scientifica tra il già menzionato Ewald Hering e Hermann von Helmholtz – medico, fisiologo e fisico di prima grandezza – sulla percezione dei colori.

La teoria tricromatica di Helmholtz traeva spunto da fatti fisici inconfutabili, attestati per esempio dal celeberrimo disco colorato messo a punto da T. Young (e poi perfezionato da James. C. Maxwell) o dall’altro esperimento dei tre fasci di luce proiettati su un muro bianco realizzato ancora da Young: dotando i tre fasci, rispettivamente, di un filtro rosso, di uno verde e di uno blu, facendoli poi sovrapporre in modo opportuno e variando via via l’intensità luminosa di ciascuno di essi si possono ottenere nella zona centrale tutti i colori dell’iride, giallo compreso (che risulta dalla mescolanza della luce rossa e della luce verde). Von Helmholtz, seguendo Young, riconduceva di conseguenza la percezione cromatica a tre tipi di coni, uno sensibile al verde, uno al rosso e uno al blu-violetto. La mescolanza degli impulsi provenienti dai tre tipi di coni, a seconda delle diverse e opportune proporzioni con cui essa può realizzarsi, permetteva secondo von Helmholtz di spiegare la percezione di tutti gli altri colori dello spettro visibile. Tali colori, rispetto a quelli ritenuti primari (appunto il rosso, il verde e il blu-violetto) venivano perciò definiti «colori misti».  

La teoria che Hering gli contrappose scaturiva di converso da osservazioni squisitamente fenomenologiche (le più importanti delle quali si ritrovano in Goethe, Schopenhauer e Michel Eugène Chevreul) e prospettava una fisiologia dell’organo della visione che discendeva direttamente, per così dire, da quanto emergeva dalla descrizione fenomenologica dell’esperienza cromatica effettiva. Alcune di queste osservazioni sono le seguenti. Il giallo, da un punto di vista fenomenologico, ci appare come un colore primario, puro, fondamentale, esattamente come il rosso, il verde e il blu, e non come una mescolanza di altri colori. L’esperienza percettiva, inoltre, indica che vi sono determinate coppie di sensazioni di colore, come il rosso e il verde o il giallo e il blu (detti per l’appunto colori opponenti) che presentano caratteri antagonistici, ovvero che non si fondono mai, non danno luogo a tinte intermedie: non vi sono, cioè, sensazioni cromatiche descrivibili come rosso–verdastre o come giallo–bluastre. Invece, si possono avere sensazioni verde-bluastre (è il caso del viola), come pure (è il caso dell’arancione) giallo-rossastre.

Sulla scorta di queste osservazioni, Hering propose una teoria fisiologica in cui i colori di base, oltre al bianco e al nero, diventano quattro (il giallo, il rosso, il verde e il blu) e ipotizzò che la loro visione fosse dovuta a processi opposti aventi luogo in tre diversi tipi di sostanze fotochimiche, un tipo per il rosso–verde, un altro per il giallo–blu e un altro ancora per il bianco–nero.  Hering ipotizzò così che quando un recettore, per esempio quello contenente la sostanza fotochimica sensibile alla coppia rosso-verde, viene stimolato, esso risponde o col rosso o col verde, non potendo verificarsi simultaneamente nella stessa sostanza fotosensibile la fase anabolica e quella catabolica. Per questa ragione, secondo Hering, nell’esperienza effettiva del colore non si danno sensazioni rosso–verdastre o giallo–bluastre. Diversamente, coppie di colori come il giallo e il verde, il verde e l’azzurro, il giallo e il rosso, nell’esperienza fenomenica possono fondersi dando luogo a colori intermedi perché tali coppie non scaturiscono da processi antagonistici aventi luogo nello stesso recettore, nella stessa sostanza.

Con questa teoria Hering poteva dar conto di fatti dell’esperienza fenomenica che la teoria helmholtziana semplicemente non spiegava. Oltre ai menzionati fenomeni di opponenza cromatica tra rosso e verde e tra giallo e blu, è questo il caso del contrasto cromatico simultaneo (o induzione cromatica), dove il colore indotto è sempre l’antagonista di quello della superficie inducente. Lo stesso si dica delle immagini postume: se dopo aver fissato intensamente una macchia di colore si guarda un punto su una superficie di un colore neutro (per es. grigio), su questa compare una macchia della stessa forma della macchia fissata precedentemente, ma il cui colore è complementare a quello di questa. Entrambe i fenomeni, secondo Hering, potevano essere ricondotti a un declino, causato dalla prolungata stimolazione, della fase anabolica o catabolica della sostanza fotosensibile interessata, e dunque all’instaurarsi in essa del processo opposto, responsabile del colore antagonista.

Nella lunga disputa tra la teoria tricromatica di von Helmholtz e la teoria quadricromatica di Hering, la prima ebbe la meglio, restando egemone per decenni. Oggi sappiamo invece che comportamenti antagonistici o bipolari del tipo di quelli ipotizzati da Hering sono propri di cellule che si trovano sia a livello retinico, sia nel corpo genicolato che nella corteccia visiva e ciò ha fatto sì che la teoria di Hering sia stata ripresa, riconsiderata e finalmente affiancata a quella di von Helmholtz. In sostanza, con la sua teoria, Hering inaugurò un tipo di fenomenologia che credette nella fecondità della connessione tra descrizione fenomenologica e indagine empirica e indicò una strada che sarà condivisa da importanti autori della fenomenologia non husserliana di fine Ottocento e del primo trentennio del Novecento: tra questi sono senz’altro da ricordare Mach, Stumpf, Karl Bühler e la sua scuola, i rappresentanti della tradizione gestaltista berlinese.

Che posizione occupa l’epoché nella scienza e nella fenomenologia?

Per quello di cui stiamo discorrendo qui, occupa in entrambe una posizione centrale nel momento in cui la si intende tipicamente come una descrizione dell’esperienza diretta il più possibile completa e non prevenuta, direi non pregiudicata da modelli scientifici ritenuti vincenti. Come già Mach, grande fisico – lo stesso Einstein fu influenzato dalle sue vedute – e grande fenomenologo – esortava a fare, occorre cioè tener sempre presente sia che le leggi della fisica non rappresentano il punto di vista privilegiato per la descrizione del mondo dell’esperienza, sia che le stesse teorie fisiche «[…] sono come le foglie secche, che cadono dopo aver permesso all’organismo della scienza di respirare per un certo tempo». A mio avviso, un’epoché ante litteram è già quella adottata da Goethe nella sua Teoria dei Colori (1810), dove all’approccio fisico al mondo dei colori egli contrappone un approccio esperenziale, evidenziando le coordinate sistematiche su cui poggiano le nostre esperienze cromatiche. Più precisamente, il metodo di Goethe non consiste tanto nella raccolta di materiale empirico, ma cerca di individuare i nessi ineludibili che si presentano nei fenomeni, le caratteristiche, la logica e la legalità interna dei colori, la loro necessità materiale stando a come essi si presentano nell’esperienza fenomenica effettiva: da una punto di vista esperenziale, per esempio, non può esistere un rosso verdastro. A questi nessi e a questa legalità Goethe pervenne attraverso una osservazione, per così dire, libera, esercitata nella concretezza dell’esperienza comune, osservazione che talvolta operava anche in condizioni più sistematiche, scientificamente controllate, potremmo dire. È questo il caso, per esempio, dei fenomeni del contrasto consecutivo e del contrasto simultaneo, che Goethe constatò passeggiando per i campi attraverso papaveri rossi, osservando un ragazza col corpetto rosso, e poi anche utilizzando carta colorata rossa su fondo bianco e via dicendo.

Si dice spesso che Goethe volle costruire una velleitaria fisica qualitativa in antitesi alla fisica quantitativa di Newton. Questo è senz’altro vero. E’ però altrettanto vero che il tipo di osservazione e la vera e propria fenomenologia dell’esperienza che Goethe realizzò è utilissima al mondo delle scienze quando queste si rivolgono non al mondo fisico ma all’esperienza umana. Pensiamo nuovamente alla teoria di Hering, che delle descrizioni di Goethe fece letteralmente tesoro. Se praticare l’epoché significa accordare il primato all’osservazione fenomenologica, la vicenda di Hering mette in tutta evidenza i vantaggi di una epoché siffatta: essa, infatti, da una parte, mise capo a una teoria effettivamente esplicativa dell’esperienza incalzando con dei dati di fatto una teoria, come quella di von Helmholtz, che pure godeva di un consenso pressoché generale presso la cerchia degli scienziati;

dall’altra, veniva a suggerire che si potevano avanzare linee ipotetiche di spiegazione circa il funzionamento del substrato neurobiologico dell’esperienza partendo da quanto riscontrato sullo stesso terreno fenomenologico. È del tutto evidente – come accennavo prima – che l’impiego dell’osservazione fenomenologica per risalire ai processi fisiologici sottostanti all’esperienza stessa è un tema oggi particolarmente caro a tutte le indagini scientifiche che hanno maturato una sostanziale insoddisfazione per quanto proposto per anni dai modelli computazionali.  

Credi si possa rendere pratica, fruibile, la filosofia nella vita di tutti i giorni?

Sì, e lo si può fare in molti modi. Sempre per rimanere confinati al nostro argomento, si possono rendere pratiche e fruibili le riflessioni gnoseologiche mettendole alla prova col quotidiano, con l’esperienza ordinaria. Per esempio, prendiamo il Trattato sulla natura umana di Hume e la famosa parte sulla causalità. La tesi di Hume è che noi non vediamo la causalità, che è piuttosto un contenuto che va la di là di quanto attestato dall’evidenza dei sensi  e che è introdotto dall’abitudine, una disposizione istintiva, psicologica, che ci induce a credere che vi sia regolarità negli eventi naturali e che il futuro sia conforme al passato. In realtà dunque – secondo Hume – in ciò che vediamo non vi sono cause ed effetti, ma solo successioni di eventi, successioni tra le quali, per abitudine, siamo portati a istituire nessi causali. Bene, ma è proprio vero che non vediamo la causalità? Grandi testi di fenomenologia mostrano il contrario. Ma prima vorrei partire proprio da un episodio di vita vissuta. Si tratta di un celebre aneddoto di Wolfgang Metzger (autore della seconda generazione della tradizione gestaltista berlinese), e più precisamente di un episodio occorsogli quando era soldato durante la prima guerra mondiale: un giorno, usando il bagno della sua baracca militare, tirò lo sciacquone e come lo fece la baracca saltò in aria perché fu colpita da una bomba. Ma a Metzger sembrò distintamente che la deflagrazione della baracca fosse da ricondurre al suo aver tirato lo sciacquone. Si tratta di un aneddoto che Metzger amava raccontare perché è emblematico del fatto che l’esperienza ha contenuti  del tutto peculiari e per i quali, contrariamente a quanto ritenuto da Hume, l’abitudine non gioca alcun ruolo. Utilizzare i fatti, anche quelli che possono capitarci nel quotidiano, per mettere alla prova le riflessioni gnoseologiche, come pure partire da queste e valutare la loro congruità con quanto avviene nell’esperienza ordinaria, è un tratto tipico di una certa fenomenologia: in primo luogo della grande tradizione gestaltista berlinese di Wolfgang Köhler, Max Wertheimer e Kurt Koffka, ma anche da quanto prodotto da uno dei più grandi fenomenologi italiani, Paolo Bozzi: in entrambe i casi, il lavoro fenomenologico veniva inteso proprio nei termini di una sorta di gnoseologia sperimentale. Nel caso della causalità, come suggerito dall’aneddoto di Metzger, gli esperimenti di Albert Michotte mostreranno effettivamente che la causalità è un’esperienza dipendente dalla strutturazione degli aspetti temporali, spaziali e cinetici del sistema di stimolazione, e non dall’esperienza acquisita o dalle competenze epistemiche del soggetto: un vedere, dunque, che oggi definiremmo come una forma di vedere semplice, e non epistemico.

I pericoli del riduzionismo scientifico, se li riscontri quali sono?

Certo che ve ne sono. Ma mi limiterei, sempre per rimanere in tema, al riduzionismo a cui può portare una accezione troppo restrittiva, fisicalistica – potremmo dire – di osservazione, come pure una carente o assente osservazione del momento esperenziale. Di nuovo è qui emblematica la vicenda della controversia tra Hering e von Helmholtz. Diversamente da quelle di quest’ultimo, le indagini di Hering si caratterizzavano per il ruolo primario conferito alle cose viste, alla dimensione esperenziale del colore, che veniva eletta a punto di partenza e a ruolo di guida e di ispiratrice anche per la messa a punto di ipotesi sui meccanismi fisiologici ad essa sottostanti. Il conflitto di Hering con la teoria helmholtziana derivava in larga misura proprio da questa scelta metodologica, e cioè dal primato accordato all’osservazione fenomenologica: non si può ridurre la spiegazione di un fenomeno esperenziale come la percezione dei colori a quanto è dato concludere grazie all’osservazione di fatti fisici, sicuramente inconfutabili, come la menzionata sintesi additiva attestata, per esempio, dal celeberrimo disco colorato messo a punto da Young e poi perfezionato da J. C. Maxwell. L’osservazione fenomenologica, in Hering, fungeva precisamente come uno strumento correttivo di questo tipo di riduzionismo. Nel caso della percezione cromatica,  l’osservazione fenomenologica poneva degli explananda alla teoria di von Helmholtz, explananda che questa lasciava in buona parte inevasi. Proprio per questa ragione la teoria di Hering non ha mai completamente perso la sua forza: questa forza derivava appunto dalla quantità di fatti fenomenici che, contrariamente a quella di von Helmholtz, essa era in grado di spiegare. Come dire: l’esperienza presenta contenuti, fenomeni che una teoria fisiologica dell’esperienza è tenuta a spiegare. Se non riesce a farlo significa che in quella teoria c’è qualcosa da rivedere. Che la mancata osservazione fenomenologica dell’esperienza sia una forma di riduzionismo, una riduzione dell’esperienza a qualcosa di altro, di diverso da ciò che essa è e manifesta e che un procedere siffatto non sia funzionale a comprendere davvero l’esperienza stessa lo si può constatare pensando anche ai fenomeni della trasmissione dei vissuti, dell’interazione emotiva, della comprensione degli stati interni altri, dell’empatia. Per anni i modelli scientifici prevalenti sono stati quelli della famiglia delle cosiddette theories of mind, basate sull’idea che la comprensione degli altri parta sempre dalle competenze epistemiche (teoretico-inferenziali) o dalle abilità (immaginative o simulatorie) del singolo individuo, e cioè da una prospettiva in prima persona, dal proprio solus ipse per così dire. Diversamente da queste teorie, la riflessione contemporanea e le recenti scoperte neurofisiologiche prospettano una spiegazione del tutto diversa. Ciò che viene posto in primo piano è il carattere pre-riflessivo e pre-teoretico della comprensione degli altri e che – a livello primario – è la semplice percezione dell’espressione corporea che ci consente di comprendere direttamente i vissuti altrui. Anche in questo caso si tratta di una prospettiva che caratterizza la gran parte della tradizione fenomenologica e a cui questa era giunta semplicemente osservando e ragionando direttamente sull’esperienza. La comprensione degli altri che si ha nelle circostanze più solite non ha niente di indiretto e di inferenziale, è immediata, diretta e di fronte a una espressione facciale del nostro interlocutore non giungiamo a riconoscere il suo stato emotivo perché quell’espressione rievoca in noi il vissuto di un’esperienza analoga. Che per esempio non è a partire dalla propria collera che veniamo a conoscenza della collera altrui è quanto già il comportamento dei bambini piccoli attesta chiaramente: il bambino – che non ha ancora un proprio repertorio emotivo e al quale difficilmente si possono ascrivere processi di simulazione e capacità concettuali riconosce chiaramente la collera nelle espressioni del viso del padre e vi risponde appropriatamente, per esempio con paura o con stizza. È dunque una prospettiva esternalista quella che oggi viene proposta: a un livello primario, non comprendiamo gli altri a partire da una prospettiva interna, dalla nostra ipseità, ma direttamente attraverso il loro corpo e l’espressività di questo. Già Nietzsche – e si tratta di un adagio che autori come Köhler, Max Scheler e Ludwig Klages hanno fatto proprio con convinzione –  sosteneva che il tu viene prima del noi.

Ognuno è suo, quali riflessioni ti suscita?

Ognuno è suo, ma in ciò che è nostro il ruolo degli altri è fondamentale. Quello a cui penso è di nuovo la componente allocentrica che la gran parte della fenomenologia ha sempre posto in luce. Di quello che è nostro, del nostro sé, insomma, gli altri fanno sempre parte, sono co-costitutivi per ciò che siamo. Ciò che è nostro, a partire dal nostro modo di relazionarsi con la vita, è sempre il frutto di un consorzio dinamico – variabilissimo da persona a persona, non facile e niente affatto lineare – tra l’ipseità e i suoi processi da una parte e prospettiva allocentrica e i suoi processi dall’altra.

Maria Giovanna Farina


(Giugno 2016 - Tutti i diritti riservati©)




L'accento di Socrate