Intervista a Duccio Demetrio, professore ordinario di Filosofia dell'educazione e di Teorie e pratiche della narrazione

all'Università degli studi di Milano-Bicocca,

per l'uscita del suo nuovo libro edito da Raffaello Cortina

L'interiorità maschile, le solitudini degli uomini


Un libro che se non lo avesse scritto lui poteva scriverlo solo una donna. È un'analisi lucida e senza sconti della forma più bieca di un certo tipo di maschio che non diventa mai uomo, ma non limitandosi solo a questo Demetrio mostra la via d'uscita per il riscatto a quella stessa categoria messa sotto la lente. Abbiamo chiesto spiegazioni all'autore.


L’interiorità maschile, le solitudini degli uomini analizzate in questo nuovo libro rappresentano un’analisi critica del maschio, ma anche l’analisi filosofica delle sue solitudini. Da quale esigenza è nato questo lavoro?

Nasce da una constatazione che è sotto gli occhi di tutti. Il riemergere diffuso di un’ arroganza maschile, non solo nei confronti delle donne, ma tra gli stessi maschi. La competizione, la crudeltà, il disprezzo, la concorrenza spietata, l’umiliazione dell’avversario continuano a rappresentare uno dei tratti costituitivi della maschilità. Possono variare gli stili, più o meno brutali, con i quali queste manifestazioni di inciviltà si presentano, in ogni caso l’esibizionismo, il narcisismo più volgare, la superficialità continuano a prosperare. E i maschi ne sono diventati l’emblema, il prototipo, che continua ad affascinare le nuove generazioni: sia maschili che femminili. La catena sembra non possa spezzarsi. Tali atteggiamenti, sostenuti dai media, costituiscono un modello pedagogico che incita ad essere rissosi, a sopraffare senza regole pur di primeggiare. L’educazione maschile attualmente disseminata sostituisce alla onestà, alla trasparenza, ad idealità per il bene comune,  il disprezzo aperto per la giustizia; la prevaricazione, agli ideali di tolleranza e solidarietà; la cultura, al trionfo acclamato dell’ignoranza.

  Il mio libro, però, non essendo scritto da un sociologo, né da un notista politico, non si è attardato più di tanto sui comportamenti citati. Mi interessava indagare se una filosofia del maschile, questione che mi sembra assai poco affrontata e discussa (del resto, i maschi non amano riflettere più di tanto e tanto meno su di sé) possa darsi come un tentativo di ricerca di verità nascoste e inconfessate taciute a lungo. Anche in questo campo esiste un’ atavica sperequazione tra i filosofi e le filosofe, che soltanto nel ‘900 hanno iniziato ad interrogarsi, conquistandosi a caro prezzo la loro emancipazione, proprio  a partire dalle questioni di genere a lungo liquidate come irrilevanti. Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano, … questi sono i nomi noti che ci hanno insegnato a pensare altrimenti categorie concettuali monopolio degli uomini: cura, ascesi, vita, amore… Mettendo . al centro la sessualità come vertice analitico e generatore di concettualizzazioni che prima, nelle mani degli uomini, non avevano potuto affacciarsi. Qui già distinguo tra i maschi e gli uomini: poiché il maschio non riesce ad elevarsi né a poeta, né tanto meno a filosofo. Ed è stato inevitabile allora chiedermi, secondo antica tradizione, se i maschi siano soliti “pensarsi”, non tanto per scopi legati alla loro ossessione montante che è il “fare”, quanto per il puro piacere e desiderio di farlo. In un otium autocritico e creativo, che ritroviamo nella tradizione platonica, stoica, epicurea e via via in età Moderna nei loro epigoni appartenenti alla storia del pensiero laico, liberale, democratico. La risposta, che percorre pagine diverse del libro, l’ho cercata quindi in quelle figure di maschi che seppero - e sanno - oltrepassare quella “selvatichezza” maschilista ed elevarsi al rango di uomini, forse meno sicuri di sé, ma aperti ai grandi problemi della vita e non per il solo, egotistico ed egoista, utilitarismo. 

Le prime pagine sono poi dedicate alla constatazione “empirica”, che i maschi disertano – è facile constatarlo senza sforzo, basta frequentarle  - le iniziative culturali più impegnate. O per lo meno quelle dove più  si dibatta dei grandi temi dell’esistenza, della religione, della filosofia. Il pubblico è sempre più femminile ed è  sempre il più attento e disponibile (per lo meno quando le presenti sono donne e non solo femmine) ad affrontare questioni che i maschi irridono, quando si tratti di abbandonare modi di essere superficiali e approssimativi. Quasi ne provassero un fastidio inconscio. Credo che la dimensione profonda dell’essere di ciascuno di noi, in un certo qual modo li spaventi. In questo rigetto, in questo loro ossessivo occuparsi di sport, di gareggiare (nei modi più disparati), manifestano un’ansia di prestazione che non si estingue nemmeno in vecchiaia. Patetico è il tentativo di compensare la propria impotenza (anche sessuale) con la mitizzazione dei più dominanti e di successo tra loro

 Il testo racconta che i maschi tendono a fuggire di fronte alla ricerca interiore. Che maschi sono? Che differenza c’è tra maschio e uomo?

 Da quanto detto, il passo alla nozione di interiorità (al sentire interiore, al punto di vista interiore) il passo è breve e inevitabile: come a lungo discuto nel mio lavoro, nulla è più sfuggente, inafferrabile, invisibile di questa “entità ” che ci abita, che respira dentro di noi, che ci pone domande imbarazzanti e che sappiamo già in anticipo senza risposta, senza un’utilità alcuna… Dai maschi, soltanto tali, sempre rifuggite: e invece da chi è riuscito grazie ai duri tirocini esistenziali (tra necessità e virtù), intellettuali, spirituali, per diventare uomo perseguite come altrettante  vocazioni intellettuali, poetiche, ascetiche. I cui tratti distintivi sono la solitudine, la tensione terrena o ultraterrena, il dominio, il governo, l’esame inesausto di sé. Tensioni che consentono  di  liberarsi della crisalide maschile per accedere alla maniera di esistere in quanto    uomini: a quanto riconduco alla più autentica virilità. Così affine, fra l’altro, ai modi oggi di quelle donne che perseguono identici fini  esaltando un’altra loro “femminilità”. Dell’interiorità non riusciamo ad afferrare i contorni, a disegnarne i crinali non oltre oltrepassabili. Chiunque, indipendentemente dal sesso non ne abbia paura, la consideri una fonte inesauribile di consapevolezza di sé e del mondo, è uomo. Si tratti del più umile, dell’eterno sconfitto o offeso tra questi, o viceversa, di chi sia riuscito a far sentire la sua voce, a sfidare i maschi,  non vi è differenza tra costoro. La distanza che i maschi  frappongono con  la loro intima vita interiore, con quella degli altri e delle altre, si rivela perciò palese, irrimediabile; dal momento che i miei simili- appartenenti a tale trionfante sottospecie -amano toccare, vedere, concretizzare, mercanteggiare, ecc. Non sopportano di non vedere (l’ interiorità è l’ invisibile di chiunque), di avere a che fare con qualcosa che non si può comprare (l’ interiorità è libera e segreta), di  sapere che esiste qualcuno che si avvicina alla morte senza il loro terrore del vuoto incombente. Quindi ci sono maschi-maschi che per tutta la vita non si industriano affatto a porsi domande di senso, aliene da questioni concrete (la cui interiorità coincide semmai con l’attività del pensare per scopi pratici, per tramare, per ingannare…); e maschi-uomini che non si sono accontentati di restare fermi a questo stadio primitivo. Per sorte, per circostanze misteriose, per vocazioni ben diverse: per cercare di esplorare altre possibilità di vita maschile all’insegna della difesa, della coltivazione, del perseguimento di modi altri di manifestarsi. Evocare la nozione, ambigua non v’è dubbio di interiorità, con tutto il retaggio sentimentale, spiritualista, buonista che reca con sé significa agire un  conflitto non solo interno e soggettivo con la visione soltanto esteriore e superficiale delle cose.

 Quali sono le pessime abitudini che i maschi hanno insegnato alle donne?

 Anche se, come il nuovo pensiero della differenza sessuale sostiene, sarebbe bene che le donne cessassero di mostrarsi sempre vittime del maschile, come non assistere ancora all’esercizio di potere il più sfacciato, perverso, abusante, violento nei loro confronti? Detto questo, è vero che assistiamo a fenomeni solo in parte nuovi: alla vendita del proprio corpo per conquistarsi i favori  maschili, a baratti per accedere a posizioni di privilegio e potere contro altre donne, a un gioco di ricatti e compravendite rispetto ai quali, da millenni, i maschi sono i mercanti migliori. Questi trucchi, tirare sul prezzo, offrirsi al miglior offerente, occuparsi soltanto di ciò che possa prevedere una contropartita, sono tecniche rozze o raffinate adottate per la sopravvivenza e non per l’elevazione interiore. Nel corso dei secoli le donne sono state brave e solerti allieve: dai maschi frequentati e sopportati con disprezzo hanno imparato di tutto: e, cosa che li irrita ancora non poco, le donne hanno mostrato di saperli battere seppur ad armi impari, a letto e in ogni altra faccenda, grazie ad un’intelligenza pratica (ma non solo), intuitiva, tenace spesso più spiccata non una ma molte volte. Le fonti? La Bibbia, la letteratura sacra o profana di ogni tempo e luogo. È con gli uomini, invece, che le donne si sono trovate a mal partito, meno pronte: quando questi hanno saputo affascinarle, sedurle, commuoverle. Insegnando loro altri modi meno crudi e predatori di essere, meno domestici e più alati e avventurosi. Di questi uomini non solo tratto, ma avvalendomi di alcuni ritratti e autoritratti pittorici ed emblematici, invento – sul finire del saggio - monologhi anche d’amore rivolti a donne capaci di comprendere le nobiltà d’animo: ad esempio, di figure narranti d’uomo che non si raggiunsero mai, che impararono a custodire la malinconia,  che osarono tornare bambini, che salvarono le storie degli altri, che rincorsero l’utopia …, che cercarono e ancora cercano il silenzio assoluto

 Il paragrafo Per soli maschi è emblematico, credo sia centrale per comprendere il testo, mi sbaglio?

 Grazie anche per questa domanda. Leggo allora l’inizio del V capitolo dal titolo In fuga da se stessi: “L’eroe che non rinuncia alla sua missione ancestrale, vuole essere solo. Non teme la solitudine perché in ogni circostanza ha se stesso: nell’'eremo o nella folla, nel convivio o nel pasto frugale … In ogni luogo egli si trovi, la sua forza interiore coltivata con pazienza lo rende amabile, sollecito … Sa di essere un uomo che ha imparato a farsi domande prima di porle agli altri(p.139). E’ vero, questa parte è la chiave di volta filosofica per intendere meglio anche il sottotitolo del libro: “Le solitudini degli uomini”. L’ho dedicata al tema prettamente speculativo e umano, trattato in altri modi da tanti filosofi, costituito dal senso tragico del nostro esistere, che ravviso in particolare negli uomini: prima di tutto nella loro impotenza a generare vita, a partorire corpi e inoltre nel destino di solitudine ineluttabile che ci caratterizza e che ha reso filosofi molti di noi. Ora, ben lungi dal ritenere entrambe le condizioni nefaste per la coscienza – e che i maschi tutti protesi a mostrarsi sessualmente superiori e capaci ma non generativi rifuggono con ogni mezzo e anestetico – considero proprio questo lo snodo più interessante per comprendere la differenza ancestrale tra i maschi e gli uomini. I primi possono anche generare figliolanze innumerevoli, ma restano comunque impotenti; i secondi possono anche non avere figli, però sono in grado di generare altro: bellezza, ideali, giustizia, pensiero, amore … Se i primi si accontentano, vantandosi di mettere al mondo copie di sé; i secondi accettano la loro minorità e la sublimano con altre creazioni. E ancora, se i primi non sanno stare soli, per consuetudine essendo stati educati ad essere sempre insieme come guerrieri, cacciatori, commercianti (pur nel competere citato); i secondi invece scelgono di percorrere ancora le grandi vie spirituali e intellettuali proprie delle tradizioni monastiche, delle vie controcorrente dei cercatori di verità, della poesia, dell’arte, della ricerca scientifica. Qui il lettore o la lettrice potranno trovare il senso più profondo del mio libro: la felicità per gli uomini è impossibile, mentre i maschi si accontentano di poche sue illusioni, nel loro materialismo assoluto. Mentre gli uomini non la cercano più: perseguono invece qualche approdo sempre provvisorio inerente il sapere e la possibilità di accrescerlo non per sé soli. La conoscenza  non ci fa sempre contenti, ma sicuramente ci consente di percepire il nostro travaglio una fonte di vita. Nell’inquietudine indomita, nella solitudine cerchiamo perciò il nostro senso più disarmante e disincantato. I maschi, al contrario (basta osservarli andare a zonzo in bande giovanili o senili) sono  in fuga dalla solitudine, perché non riescono a stare soli bene con se stessi. E se lo sono per scelta (in quanto atleti, alpinisti, cacciatori, ecc) comunque devono “fare” qualcosa che faccia intravedere loro il gusto della  gara, della conquista tangibile, come singoli o raggruppati in casta, consorteria, squadra. È questo un maschile che la letteratura ha rappresentato più volte nella sua miseria, nella povertà intellettuale, nella mancanza di evoluzione personale, nella incapacità di vivere solitudini feconde lontane dai luoghi, dalle sequele, dagli interessi citati, che i maschi hanno bisogno sempre di spendere nella interazione conflittuale, o temporaneamente concorde, con i propri simili. Nel disprezzo di chi non è come loro. Sono modalità di essere in relazione che le donne praticano diversamente, in ogni caso: più disponibili ad interrogarsi, a narrarsi, a resistere ai maschi di casa trovando altrove, anche accogliendo la solitudine, per vetusta abitudine ad essere abbandonate, a perdere i loro maschi, a non essere riconosciute come esseri umani, quello che nel qui ed ora non trovano. Ad esempio un maschio disposto ad ascoltare, ad amarle in modi diversi. Per tale motivo l’ultimo capitolo tra il serio e il faceto è dedicato all’invito di “Andare a scuola dalle donne”: per imparare, seppur tardivamente a scoprire il gusto poetico dell’esistenza, a interrogare quel che sono e come lo sono diventati, a scrivere in una ritrovata e possibile amicizia. Il tragico non ci abbandonerà comunque, in quanto viventi destinati a perdere la vita, ma almeno in quel tratto di strada possibile percorso insieme tra donne e uomini, essa ci apparirà meno dolente ed agra. Nel rispetto delle reciproche solitudini, nella gioia di ritrovarci.

   Maria Giovanna Farina



L'accento di Socrate