Intervista a Maria Antonella Balsano


 

Maria Antonella Balsano è docente di Storia della musica all’Università di Palermo. L'abbiamo intervista per comprendere qualcosa di più sul valore della musica nella nostra vita.


Quale epoca ritiene più fertile dal punto di vista musicale?

Direi il mezzo secolo a cavallo del 1600 (grosso modo dal 1575 al 1625). Domina la grande personalità di Monteverdi, che il musicologo inglese Denis Arnold ha definito a ragione il creatore della musica moderna: a lui dobbiamo il contributo decisivo per una serie di eventi capitali: il passaggio definitivo dalla modalità alla tonalità, dalla polifonia alla monodia. Monteverdi trasfonde i pregi della polifonia nella nuova monodia; riesce inoltre a realizzare un perfetto equilibrio tra la concezione della musica intesa come discorso da una parte e come architettura sonora dall’altra. Ma soprattutto è l’artefice determinante per l’evento fondamentale del periodo, la nascita dell’opera in musica, un genere che continuerà nei secoli a venire, divenendone spesso la forma predominante, anche sotto il profilo della fruizione e della funzione sociale.

Quindi conoscere questo cinquantennio è fondamentale per andare avanti?

Decisamente.

Cosa pensa del '700 in musica?

È un secolo fondamentale, perché nella prima metà del secolo si perviene ad una perfetta formulazione e definizione di alcune forme musicali importanti. Ad esempio, dal concerto grosso di Corelli, in cui il numero dei movimenti non era rigidamente fissato, si perviene al concerto di Vivaldi, in cui una struttura chiara e razionale si stabilizza in maniera definitiva. Questo accade anche nell’opera, in cui si arriva alla dicotomia recitativo-aria. Nella seconda metà del secolo però all’interno di queste strutture così chiaramente definite si trovano i germi per il loro superamento. Pensiamo al teatro musicale e alle grandi sinfonie di Mozart: essi seguono gli schemi che si erano stabilizzati a metà secolo, ma il compositore vi inserisce una tale ricchezza e complessità, che porteranno all’esplosione di queste forme, cosa che accadrà compiutamente nel secolo seguente.

La rivista ama occuparsi di poesia. Le chiedo che rapporto hanno Goethe e la poesia con la musica?

Lo stretto rapporto tra poesia e musica è stata una costante della nostra civiltà, fin dall’antichità classica, nella quale il poeta, componendo i versi, ne prefigurava la realizzazione musicale. L’epoca nella quale il rapporto tra testo e musica porta ad esiti sommi è quella del madrigale cinquecentesco. Goethe ha nei confronti della musica un rapporto privilegiato: i suoi testi poetici hanno avuto un grandissimo successo presso i grandi compositori della sua epoca; ha inoltre scritto una continuazione del libretto del Flauto Magico, segno di una grande attenzione nei confronti della musica. Né è il solo esempio di incontro tra poesia e musica: nei paesi di lingua tedesca il repertorio del Lied è davvero splendido. La stessa cosa non è accaduta in Italia: il nostro più grande poeta italiano dell’Ottocento, Leopardi, non ha avuto il suo Schubert.

È proprio vero!

Cosa sopravvive della storia della musica nella composizione contemporanea?

Mentre in passato, in una determinata epoca, c’era uno stile predominiate al quale tutti si uniformavano, nella musica contemporanea c’è una molteplicità di concezione, di stili e di metodi compositivi, sicché ogni musicista riprende qualcosa della storia del passato. Ogni filone, ogni genere, ogni stile ha oggi i suoi eredi.

Non so se faccia parte delle sue competenze, ma a cosa può essere dovuto l'avere orecchio, riuscire a ripetere sequenze musicali dopo averle sentite una sola volta, oltre alla memoria quali altri fattori intervengono?

Non fa parte delle mie competenze, però direi che bisogna distinguere tra la memoria uditiva e la capacità di riprodurre un motivo: la prima ci consente di ricordare ad esempio un tema, un motivo, una canzone, può essere più accentuata in alcune persone e meno in altre e si può esercitare e affinare; la seconda richiede orecchio e musicalità, doti a mio avviso innate.

Saprebbe dirmi a cosa è dovuto il successo del rap, soprattutto tra i giovani?

Probabilmente ad una serie di fattori che non sono tutti musicali: la dimensione ritmica, che coinvolge anche il corpo; la predominanza di tematiche che hanno una forte carica di protesta, il che in età adolescenziale risulta particolarmente attraente. Inoltre si tratta sempre di un’esperienza condivisa, una moda, anche se un po’ di nicchia, che è anche uno stile di vita. Sotto il profilo musicale a mio avviso il successo di questo repertorio è dovuto alla sua ripetitività, che non richiede una particolare competenza: avviene insomma quel che nel campo della filologia si suole indicare come lectio facilior.

Come se fosse più alla portata dei ragazzi

Sì, chiunque può seguire il Rap, mentre occorre un approccio più mediato per seguire e gustare una sinfonia di Mozart. Unito a tutti gli elementi extramusicali che ho citato prima, fa sì che esso abbia successo.

Affidandosi alla sua esperienza didattica, quali doti pensa che siano imprescindibili per la formazione di un buon musicista?

Dal momento che svolgo la mia attività didattica all’interno dell’Università e non di un Conservatorio, il mio compito istituzionale è quello di formare musicologi e non musicisti

Ma un musicologo può essere anche musicista?

Direi deve essere anche musicista. L’obiettivo comune dovrebbe essere quello di rendere complementari queste due competenze. Ritengo in ogni caso necessaria una cultura di base di buon livello: tanto il musicista che il musicologo non possono prescindere dalla conoscenza dei contesti storici, letterari, artistici, filosofici di una certa epoca; poi è indispensabile una cultura musicale ampia. Mi è capitato di avere degli allievi clarinettisti che conoscevano solo il repertorio per clarinetto e non avevano mai ascoltato un concerto per pianoforte. Il musicista migliore è quello che è anche musicologo, che non si limita ad eseguire lo spartito che si trova davanti, ma è in grado di accostarsi alle fonti, sia musicali che teoriche (penso ai trattati di prassi esecutiva). Quando le due competenze si uniscono, il risultato non può che essere eccellente. Il primo nome che mi viene in mente, nel campo della musica antica, è ad esempio quello di Toni Florio. Il musicista deve avere ovviamente una musicalità innata, deve affinarla, abituarsi a suonare in gruppo. Spesso chi suona pianoforte ha l’abitudine di suonare da solo, non si confronta con gli altri e non ha esperienza di musica d’insieme. Anche da un punto di vista sociale e umano fare musica d’insieme è un’esperienza di particolare importanza.

Esiste un comune denominatore tra i grandi musicisti del passato e del presente e se esiste è uno o più di uno?

In via preliminare: la storia ha fatto da setaccio e sappiamo chi siano stati i grandi musicisti del passato. Non possiamo dire la stessa cosa, per lo meno con la stessa sicurezza, con i compositori dei nostri giorni, proprio perché ci manca il distacco cronologico. Inoltre, a complicare il giudizio c’è una grande differenza rispetto al passato, quando la funzione sociale della musica era di ben altro impatto rispetto ad oggi. Basti pensare alle opere di Verdi, cioè di un grandissimo compositore: di altissimo livello qualitativo, esse avevano una diffusione ampissima: quasi tutto il pubblico le conosceva. La stessa cosa non accade con la musica contemporanea, che rimane un prodotto di nicchia. Comune denominatore tra i grandi del passato e quelli del presente possono essere due elementi: il primo è la dimensione artigianale, il rapporto fisico con il suono, la capacità di controllarne ed esperirne la produzione. Questo vale anche per chi fa musica elettronica, che deve avere la capacità di maneggiare gli strumenti che creano il suono. Il secondo elemento a mio avviso indispensabile è la chiara consapevolezza della struttura formale: la musica non può essere una valanga di suoni senza ordine, essi devono essere umanamente organizzati. Tra i compositori viventi, mi sembra che Sciarrino sia il più noto tra gli italiani anche a livello internazionale.

Un mio amico mi ha detto che la musica è anche un mezzo di trasporto, nel senso che conduce la mente dove altrimenti sarebbe stato molto improbabile arrivare. E' d'accordo?

In un certo senso è vero e per tutte le arti. A maggior ragione per la musica strumentale, nella quale non c’è un testo scritto: essa è asemantica e incorporea, quindi può reggere qualsiasi proiezione psichica. Per finire, citerò la conclusione di un racconto di Primo Levi, dal titolo Calore vorticoso: un breve racconto di un uomo che crea palindromi. Quello posto alla fine del racconto è costituito da una frase inglese: In arts it is repose to life, che ha il suo rovescio nella frase italiana È filo teso per siti strani, che mi sembra possa esser messa a conclusione del nostro dialogo.

Maria Giovanna Farina



L'accento di Socrate